1. Premessa.

La singolare vicenda che ha aperto un nuovo tema di approfondimento trae origine dalla sentenza 24.2.2015 n. 314 del Tribunale di Udine, sostanzialmente confermata in Appello dalla Corte di Trieste (sentenza 19.12.2018 n. 751) , ancorché con differente motivazione . Nello specifico, si trattava di un contratto di leasing (“costruendo”) del 2006 a tasso variabile “ancorato” (o indicizzato) ad una valuta differente da quella di erogazione . Si aveva, quindi, una doppia clausola di indicizzazione, una relativa al rapporto di cambio (clausola di rischio cambio) ed una al variare del parametro di riferimento (nello specifico, Libor a 3 mesi).
Sulla natura di questo complesso meccanismo della clausola contrattuale attinente alla modalità di restituzione delle rate del leasing, il giudice di primo grado ha ravvisato l’esistenza di uno strumento finanziario (c.d. derivato implicito) dotato di causa propria (speculativa) autonoma rispetto a quella del contratto di leasing. La conseguenza è stata che il mancato rispetto da parte dell’intermediario della disciplina del t.u.f - prevista per gli strumenti finanziari (essenzialmente gli artt. 21 e 23 ) - ha comportato la nullità della clausola contrattuale (con conseguente riduzione del credito azionato).
In precedenza, in un caso del tutto simile, il Tribunale di Udine aveva riconosciuto alla sola clausola di indicizzazione al rapporto di cambio Euro/Franco Svizzero (rischio cambio) la natura di derivato ai sensi dell’art. 1 comma 2 lettera g. del t.u.f e, rilevato l’inadempimento dell’intermediario alle regole di condotta proprie della normativa di settore, ha censurato la validità della clausola mentre l’altra clausola di indicizzazione non aveva alterato la causa tradizionale del contratto di leasing .
Questo era, in estrema sintesi, il cuore della tematica, peraltro non nuova e non solo riferita alla citata clausola di doppia indicizzazione.
In effetti, la questione dei derivati impliciti si era già presentata sotto un diverso aspetto, in fattispecie completamente differenti. Si allude a contratti di finanziamento (mutui o leasing) in cui fosse stata inserita la c.d. clausola floor a fronte del rischio di discesa dei tassi che avrebbe comportato per l’intermediario creditore un finanziamento a tassi così bassi da rendere antieconomica l’operazione, rispetto allo scenario iniziale. L’inserimento della clausola floor, in pratica, significava che, pattuito un tasso di interesse di un certo tipo (parametrato prevalentemente all’Euribor o al Libor), ove il dato puntuale di detto parametro fosse sceso oltre una certa soglia, interveniva la clausola che ne sterilizzava l’ulteriore discesa garantendo, quindi, all’intermediario un rendimento minimo (esempio il 2%). Analogamente e specularmente può dirsi per una clausola cap apposta ad un’emissione obbligazionaria in forza della quale il rendimento (cedola) non può mai superare una certa soglia. Ma il tema può estendersi ad altre fattispecie quali, ad esempio, le polizze sulla vita di tipo linked, che pure sono dei derivati, in quanto prodotti strutturati.
Come entra questo meccanismo di protezione dell’intermediario, anche facile da comprendere, con la tematica dei derivati impliciti? Molto semplicemente si rispondeva (dottrina e giurisprudenza) che l’attivazione della clausola floor al raggiungimento della soglia contrattualmente indicata avesse la conseguenza di trasformare un tasso variabile (parametrato o misto) in un tasso fisso, il tasso floor. Ma, quale è il tipo di contratto con cui si ottiene la trasformazione di un tasso variabile in un tasso fisso? L’interest rate swap (IRS o swap che si voglia chiamare), che è indubbiamente un contratto derivato.
Come detto, in epoca recente si è posto il tema se l’apposizione di un floor (cioè di un tasso minimo) ad un contratto di finanziamento possa configurare una opzione gratuita a favore della banca o della società di leasing implicitamente (ed inconsapevolmente) venduta dal cliente alla banca stessa .
In concreto, quando la combinazione del parametro di riferimento (maggiorato o meno dallo spread) scende al di sotto del tasso soglia (floor), l’opzione dà diritto all’intermediario di ricevere dal cliente il differenziale necessario a conguagliare il tasso minimo.
È questo il caso di cui si sta parlando e che unisce alcuni differenti elementi:
a. il contratto di finanziamento a tasso variabile (mutuo, leasing ecc.);
b. una opzione floor concessa al creditore in modo implicito, appunto, incorporata nella clausola contrattuale del tasso minimo; l’acquisto dell’opzione da parte dell’intermediario avviene a titolo gratuito , ed il contratto risulta, quindi, più oneroso rispetto a quello speculare privo di tale clausola;
c. un’eventuale opzione cap a favore del debitore qualora il contratto preveda un tasso massimo.
Peraltro, si è giustamente notato, che la presenza di detto derivato implicito non possa essere assunta acriticamente ma necessita di una “prova di resistenza” che poggia su un esborso aggiuntivo rispetto a quello naturalmente contrattuale.
Sul tema dei derivati impliciti o incorporati (implicit or embedded) , la migliore dottrina ha recentissimamente molto “frenato” nel senso che occorre che si tratti di un vero derivato, vale a dire che abbia la connotazione della differenzialità (quale oggetto del negozio) e dell’”astrazione pura” (alterità giuridica rispetto al titolo contrattuale verso il quale si pone in chiave di protezione o speculazione).
Più tranchant pare, invece, la posizione assunta da certa giurisprudenza di merito secondo cui il contratto di leasing non presenta carattere aleatorio anche nel caso di tasso variabile poiché agganciato ad un dato di riferimento soggetto a variazioni nel tempo. La clausola di determinazione del tasso di interesse non può, quindi, essere considerata atomisticamente, cioè avulsa dal rapporto contrattuale complessivo cui accede, ragion per cui da un lato è da escludersi la necessità del contratto quadro di cui all’art. 23 t.u.f, dall’altro la sussistenza in capo alla concedente di obbligazioni ulteriori rispetto a quelle ad essa imposte dal contratto e dalla disciplina generale del t.u.b. La giurisprudenza che si ritiene migliore e, soprattutto, più equilibrata, tenendo conto dell’elaborazione dottrinale, conclude che la pattuizione convenzionale in tal senso del tasso di interesse non possa ritenersi illegittima, non ponendosi essa in contrasto con norme imperative, con l’ordine pubblico o il buon costume, né essendo prevista al riguardo alcuna specifica nullità di tipo testuale .
Esiste, poi, anche una questione di tipo interpretativo. Notoriamente, ex art. 1362 cc., nell’interpretare il contratto, va accertata (anche) quale sia stata la comune intenzione delle parti e nella valutazione entra in gioco il comportamento complessivo tenuto dalle stesse, anche posteriore alla conclusione. L’assenza del nomen iuris e l’interpretazione letterale non sono, peraltro, certo risolutivi in tal senso ma il vero tema è se possa dirsi che le parti volessero stipulare un contratto derivato o meno? In altri termini, il cliente e l’intermediario hanno effettivamente voluto un qualcosa di cui, a tutto concedere, almeno il cliente non era in grado di comprendere contenuto e rischi? E poi, quali conseguenze vanno ricondotte alla evidente opacità dello schema negoziale, anche ammettendo che la banca volesse stipulare un derivato implicito occultandone l’oggetto in una clausola relativa alla quantificazione dell’interesse contrattuale del contratto di finanziamento? Questi sono alcuni dei temi ancora aperti e su cui si aspetta un contributo decisivo dalla elaborazione giurisprudenziale e all’epoca, come si dirà in seguito, si attendeva la decisione delle Sezioni Unite .
Infine, altro tema non ancora pacificamente chiarito, è legato al fatto se l’eventuale contratto derivato implicito, una volta che fosse accertato nella sua esistenza, possa considerarsi negozio collegato al principale contratto di credito, con le relative conseguenze.
Con diversa prospettiva, si è posto anche il problema se un contratto di leasing acceso in divisa estera a tasso variabile rimborsabile in valuta nazionale (euro), quindi con una doppia indicizzazione, avesse natura di strumento finanziario derivato: è il caso di cui si è parlato all’inizio. Già con sentenza 12.5.2015 la Cassazione a sezioni unite aveva precisato che il derivato, quale contratto atipico, è un effetto, sia finanziario che giuridico contenuto in clausole che possono avere sia natura autonoma sia essere incorporate in un altro contratto.

2. La clausola floor.

Facciamo un passo indietro.
Il Tribunale di Udine è stato antesignano nel sancire la nullità parziale delle clausole contrattuali riportanti condizioni economiche indeterminate e/o indeterminabili all’interno di un contratto di leasing; nello specifico, era stato rilevato che le pattuizioni negoziali integravano dei contratti derivati impliciti (rischio cambio, clausola floor) senza rispettare gli obblighi informativi gravanti sull’intermediario ai sensi del t.u.f. Sempre il Tribunale di Udine , successivamente, ha ribadito che la clausola floor è un derivato incorporato inscindibile dalla complessiva clausola sugli interessi cui si estende la nullità (parziale) ma non la nullità dell’intero contratto. Al contrario, successivamente, si è affermato che la mera presenza di una clausola floor non trasforma automaticamente il mutuo in uno strumento finanziario; tale clausola ha una causa tipica e meritevole, che non viene meno neppure in ragione della mancata previsione di un cap .
Il Tribunale di Padova , in senso contrario, ha ritenuto valida ed efficace la c.d. clausola floor espressamente approvata dal mutuatario quando la stessa è formulata in modo chiaro tanto da non lasciare neppure al cliente più inesperto dubbi sulle conseguenze che detta pattuizione può avere durante la vita del rapporto su un mutuo a tasso variabile. Posizioni discordanti si trovano in dottrina: concordano con l’orientamento patavino o dissentono in senso totalmente opposto .
Tornando alla giurisprudenza, si nega che la sola clausola floor inserita in un contratto di mutuo imponga l’osservanza della disciplina del t.u.f e dei suoi obblighi formali e comportamentali . Conforme, più recentemente, il Tribunale di Roma secondo il quale in un mutuo che contenga una clausola cap and floor (cioè un collar ) non si configura un contratto derivato implicito avente vita autonoma, né tali pattuizioni alterino la natura creditizia del contratto; inoltre, richiamato quanto previsto dal Provvedimento della banca d’Italia del 29.7.2009 e successive modifiche (norme di trasparenza bancaria), in caso di “prodotti composti” la cui finalità preponderante non sia di investimento ma di finanziamento, si applicano in via esclusiva – anche quanto agli obblighi informativi – le disposizioni del t.u.b e non quelle del t.u.f .
Le clausole floor, infine, sono pattuizioni pienamente valide ed efficaci in quanto non è ammissibile alcun sindacato del giudice sul profilo dell’equilibrio economico del contratto, ciò – ovviamente – a condizione che la relativa pattuizione risulti contrattualizzata in forma chiara e trasparente .
In conclusione di questa breve rassegna di giurisprudenza, alla posizione (che sembra abbastanza isolata) del Tribunale di Udine e della Corte d’Appello di Trieste, si contrappongono (almeno) quelle dei Tribunali di Brescia, Padova, Forlì, Roma e Treviso.
Recentissima è la sentenza della Corte d’Appello di Milano (6.9.2022 n. 2836, inedita) secondo cui la clausola floor, priva di un correttivo (cioè di un cap o di un meccanismo di riduzione dello spread), è vessatoria nei confronti di un cliente consumatore (art. 33 codice del consumo) stante lo squilibrio significativo che ne discende. Nello specifico si trattava di un’azione inibitoria avanzata da un’associazione di consumatori contro una banca a fronte di un finanziamento fondiario concesso ad un consumatore in cui era presente la sola clausola floor, ritenuta squilibrata se non riequilibrata da una correlata clausola cap.
Il tema della clausola floor è ancora aperto non essendosi allo stato pronunciata la Cassazione che, con la decisione del 2023 si è occupata della sola clausola di rischio cambio connessa alla c.d. doppia indicizzazione (v. infra).

3. La rimessione alle Sezioni Unite.

Con ordinanza interlocutoria del 16.3.2022 n. 8603 terza sezione si è avuta la rimessione al Primo Presidente della Cassazione onde venga valutato se portare dinanzi alle Sezioni Unite una serie di questioni che di seguito si prova a sintetizzare non senza tralasciare di segnalare l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale tra due sezioni della Cassazione stessa (la prima e la terza) .
La questione ritenuta di particolare rilevanza è se la clausola di un contratto di leasing finanziario di immobile da costruire, che prevede l’indicizzazione del canone a determinati tassi di cambio o di interesse (nello specifico LIBOR e franco svizzero) integri uno strumento finanziario derivato, con conseguente applicabilità della relativa disciplina prevista nel t.u.f. e, in ogni caso, se – e in che modo – essa incida sulla causa del suddetto contratto, eventualmente trasformandolo in un diverso contratto atipico o misto, ed in tale ipotesi, con quali esiti in punto di validità.
Provando a scomporre il quesito, questi sembrano i temi di prevalente interesse:
a. La clausola di doppia indicizzazione (come sopra descritto) costituisce un contratto derivato implicito (speculativo) o è un mero meccanismo di indicizzazione? Dalla risposta discende anche se il derivato implicito debba essere anche razionale sotto il profilo della causa “in concreto” ?
b. Il derivato è tale anche quando è incorporato in un contratto di finanziamento, privo di natura (e circolazione) autonoma? Tenendo conto che essendo la differenzialità il cuore del derivato, è da considerarsi tale ogni differenzialità di tipo finanziario o è richiesta la differenzialità di tipo derivativo ? Ciò porta a focalizzare, da un lato, se ed in quale misura rilevi a tal fine la volontà comune delle parti e, dall’altro, quale valenza abbia il rispetto del comportamento trasparente dell’intermediario.
c. La predetta clausola altera la causa del contratto di leasing modificandolo verso un contratto a scopo misto o, addirittura, snaturandola?
d. Vi è, nel caso di specie, una sufficiente determinatezza della clausola di doppia indicizzazione?
Il caso in discussione era un leasing “in costruendo” con clausola di doppia indicizzazione; il Procuratore Generale della Cassazione a sezioni unite si è espresso nel senso che non si tratti di strumento finanziario derivato, poiché assimilabile solo finanziariamente ma non giuridicamente, al domestic currency swap, costituendo esclusivamente un meccanismo di adeguamento della prestazione pecuniaria, privo di autonomia causale rispetto al negozio cui accede e non idoneo a circolare liberamente sul mercato.

4. La decisione delle Sezioni Unite.

Con la sentenza 23.2.2023 n. 5657 le Sezioni Unite hanno rigettato la tesi del derivato implicito definendo questa tesi una “nozione giuridicamente inutile”, “non meritevole di dignità concettuale” e “concettualmente inservibile” .
Non va confusa con un derivato implicito la presenza di una clausola di indicizzazione; inoltre, se gli interessi variano in funzione di un indice finanziario insieme ad un indice monetario non per questo si ha un derivato.
Può definirsi strumento derivato solo quello che, ratione temporis, rientra nella definizione del t.u.f ove non è era (all’epoca dei fatti di causa) e non è (anche attualmente) contemplato il “rischio cambio”.
Non è consentito, quindi, il ricorso all’analogia per ampliare la categoria. La clausola non può nemmeno essere ricompresa tra la definizione di “strumenti finanziari collegati alla valuta” perché solo quelli che – nell’intenzione delle parti – consentono di speculare sull’andamento delle valute possono considerarsi strumenti derivati e non quelli che si limitano a determinare il valore delle prestazioni rinviando ad un indice monetario .
Con l’occasione, la Corte, confermando le notissima decisione delle Sezioni Unite n. 8770/2020, peraltro pronunciata sull’utilizzo dei derivati da parte di un ente pubblico, ha enucleato i requisiti al cui ricorrere può parlarsi di derivato:
a. la differenzialità (quale differenza tra due valori variabili nel tempo) ,
b. il riferimento ad un capitale “nozionale” quale base di calcolo dei futuri flussi finanziari ,
c. la possibilità delle parti di sciogliersi dal contratto attraverso l’opzione mark to market .
Si aggiunga che si è negato anche che la clausola di doppia indicizzazione cozzi con il principio della meritevolezza, fermo il vincolo – per l’intermediario – di comportarsi secondo buona fede durante le fasi negoziali .
Non è quindi sostenibile che dalla combinazione di due clausole, tutte e due di per sé lecite, e non costituenti uno strumento finanziario derivato (contrariamente a quanto sostenuto nel giudizio di primo grado), possa sorgere un contratto illecito e che costituisca uno strumento finanziario derivato (in particolare la clausola di rischio cambio, “una sorta di swap” non meritevole ex art. 1322 cc. come sostenuto nella sentenza di appello). Si tratta, più semplicemente, di una “clausola valore” .
In definitiva, la sentenza di appello è stata cassata non per una erronea interpretazione del contratto o per un’altrettanto erronea qualificazione del contratto di leasing ma per aver formulato un giudizio di immeritevolezza dopo aver accertato in facto circostanze irrilevanti quali l’aleatorietà, la difficoltà di interpretazione, l’asimmetria delle prestazioni.
Questa decisione sarà estremamente importante per la rilevanza della complessiva questione e – non ultimo – per la numerosità di casi, aperti o non risolti definitivamente, presenti nella realtà economica, anche se - forse – non ha pronunciato la parola “fine” sulla questione.

Non si sa bene se, a prescindere o se in conseguenza del decisum delle Sezioni Unite sui derivati impliciti, ma certamente sulla scorta di una recente giurisprudenza comunitaria , il Tribunale di Napoli Nord , per una fattispecie che vedeva come parte la Barclays Bank Ireland, ha configurato come “contratto atipico di credito strutturato” quel contratto regolato (anche) dal t.u.f che presenta i seguenti elementi caratterizzanti:
a. Si tratta di “atti di regolazione del risparmio”,
b. Devono essere stipulati con un intermediario finanziario,
c. Devono essere diretti alla realizzazione di un guadagno, inteso come profitto o ulteriore risparmio e impiegato per la realizzazione di operazioni su beni, servizi, merci,
d. Il citato guadagno deve essere collegato a parametri di natura finanziaria oggetto di studio e analisi da parte di soggetti specializzati.
Su questo presupposto, sul rilievo Costituzionale dell’art. 47 Cost., avuto presente la Direttiva 93/2013 e aderendo alla dottrina che vede nel difetto di trasparenza un vulnus suscettibile di condurre alla declaratoria di nullità della clausola, il contratto atipico in oggetto presenta i tratti tipologici di finanziamento e dei negozi derivati, con la conseguenza che deve essere applicata la disciplina in parte relativa al primo segmento contrattuale, relativa al contratto di finanziamento, e in parte, con riferimento alle clausole di natura derivativa, dello strumento finanziario e, quindi, la normativa dettata dal t.u.f.; la conseguenza che ne trae il giudice napoletano è che il contratto di credito strutturato impone l’obbligo di profilazione del cliente (ex art. 21 t.u.f) e l’adempimento dei doveri informativi in ragione del rischio connesso all’operazione. Non contenendo il contratto indicazioni dell’andamento del tasso di interesse e del tasso di cambio riferite alle annualità precedenti la sottoscrizione, simulazioni in relazione ai possibili futuri mutamenti, indicazione dei fattori di natura politica ed economica che potevano incidere sui tassi e sul cambio, l’assenza di tali indicazioni rendono nulle le clausole sul tasso e sul cambio (cioè quelle di doppia indicizzazione) con l’obbligo per i mutuatari di restituire la sola quota capitale, secondo il “principio del giusto rimedio” .